Potrebbe sembrare il
titolo di un film; di quale genere non saprei, ma l’accostamento
sarebbe comunque singolare al punto giusto. Invece non c’entra
nulla, nel senso che non è ficscion (scrivo questi termini
come si leggono), ma è realtà: dura e sconfortante realtà.
Ma andiamo con ordine
e in ordine inverso. Prima il leone.
Tutti sapete di cosa
sto per parlare: non fosse altro perché gli organi d’informazione
hanno dato gran risalto al fatto. Un fatto grottesco, nel suo genere
e in certa misura emblematico, ma in generale poco significativo.
Poco importante, insomma, se considerato nell’economia del rapporto
uomo-ambiente e dei suoi drammatici risvolti.
Del resto è
dimostrato che la stampa e la TV raramente si occupano di cose
veramente importanti e se la TV lo fa, le posteggia nel filone
“documentari delle ore mezzanotte-quattro del mattino”.
In questo caso se ne
sono occupati perché il fatto presenta risvolti tali da assumere un
rilievo emozionale di prima grandezza, con l’uomo assassino che
uccide un povero leone e che lo fa così, per giocare e per
compiacersi e, ovviamente, pagando.
Si uccidono così
anche gli Indios dell’Amazzonia, ma quelli non suscitano
l’indignazione del web.
Tanto per unirci al
giustificato e planetario coro di sdegno, però, desideriamo
ricordare il nome del protagonista: un cretino come tanti cacciatori
di trofei; un americano, ricco, di mestiere dentista, con la mania di
farsi fotografare vicino a cadaveri e di riempirsi la casa di corna,
di mummie e di teste impagliate. Si chiama Walter Palmer ed abita nel
Missesota. Informazioni, queste ultime, destinate ai turisti
giramondo, per metterli in guardia. Attenzione! Perché se capitate
da quelle parti e vi salta un’otturazione, è meglio che vi
presentiate in ambulatorio dopo esservi rapati a zero. Non si sa mai.
Tutto questo,
tuttavia è persino risibile se confrontato con l’altro argomento
di cui vorrei parlare e dunque del fosso.
Si, un fosso, proprio
un fosso d’irrigazione, un banalissimo fosso perduto nella rete
idrica della campagna del Basso Piave. Uno tra mille, anzi un
chilometro di fosso tra le migliaia di chilometri che formano il
reticolo dell’idrografia di bonifica di queste contrade.
E tuttavia un fosso
speciale, per molte ragioni. Tale comunque da assumere un valore
emblematico nel contesto del drammatico rapporto uomo-ambiente che
distingue la nostra “civiltà” e dunque la nostra cultura e la
nostra economia.
Ma di che si tratta?
Vi chiederete giustamente. Bene, veniamo al dunque.
Intanto stiamo
parlando del Fosso Gorgazzo, alimentato con le acque del canale
Fossetta e collocato nella campagna a nordest di Millepertiche, tra
questa stessa località e Musile di Piave. Un fosso speciale,
semplicemente perché fino all’inizio degli anni Novanta era una
sorta di giardino acquatico. Un singolare giardino lineare, con acque
limpide in cui vegetavano folti banchi di ceratofillo e in cui si
potevano osservare distese di ninfea bianca e di morso di rana. Un
gioiello, insomma, in cui l’orto botanico spontaneo era
impreziosito da migliaia di rane, da tinche e scardole, da alborelle,
da lucci e da tartarughe palustri.
Questo, come dicevo,
fino ai primi anni Novanta.
Poi il Consorzio di
Bonifica ha cominciato la “manutenzione” mediante diserbo
chimico. Simazina si chiamava il principio attivo e le prime a
sparire sono state le ninfee bianche. Dopo di loro sono scomparse le
tinche, a favore di legioni di carassi dorati (i “rumatera” dei
Veneti, di origine cinese).
Quindi è stata la volta delle rane, la
cui popolazione è stata letteralmente decimata. Nel frattempo sono
giunte le tartarughe palustri americane dalle guance rosse, che gli
amanti degli animali hanno “restituito alla libertà”.
Ma quando sono
passato, ieri, per il sopralluogo che riservo annualmente a questo
fosso per una ragione d’affetto, non ho potuto trattenere il mio
sdegno. Il fosso è infatti deserto: non c’è più un frammento di
pianta acquatica, sul fondale melmoso si osservano le scie
dell’anodonta di Wood (grosso bivalve esotico, unica forma di
vita); le ultime rane sono scomparse e sulle sponde crescono soltanto
erbacce.
Ora, la domanda è
sempre la stessa: ma dove stiamo andando? Altroché leone, ma
guardiamoci intorno, per favore!
(Michele Zanetti, presidente Ass. Naturalisti Sandonatesi)
Michele mi ha fatto pensare ai nostri fossi, quelli che abbiamo cercato (cerca la Cerca) e trovato in condizioni disperate: mi sono reso conto che forse siamo ormai in ritardo, la manutenzione non credo sia sufficiente; si tratta di tentare di farli ri-vivere, per quanto possibile. E' chiaro che la soluzione vera sarebbe il ripascimento delle falde sotterranee assicurando alla Piave qualcosa di più di quella portata vitale (che ora non è nemmeno assicurata) ma ciò comporta una revisione delle colture agricole: un tema che per i cosìdetti esperti in agricoltura è tabù.
RispondiEliminaQuindi altri interventi: controllo degli scarichi, eliminazione dei tappi, cura delle rive, eliminazione di alberature, pulizia manuale dei fondi ma anche pulizia meccanica dei fontanassi o rifacimento di alcune barriere. Si tratta in parte di cure che il Comune fa fare (quando ne ha il coraggio e la voglia) ai proprietari delle siepi lungo le strade. Sarebbe necessario un progetto generale che contenesse sia le istruzioni del come si fanno questi interventi sia un finanziamento per quanto non può essere fatto dai cittadini (privati o gruppi di volontari). Ed uno slogan: Puliamo un fosso, una risorgiva, un fiume all'anno