"Ogni cosa era piu' sua che di ogni altro perchè la terra, l'aria, l'acqua non hanno padroni ma sono di tutti gli uomini, o meglio di chi sa farsi terra, aria, acqua e sentirsi parte di tutto il creato." (Mario Rigoni Stern)

domenica 21 giugno 2015

I DILEMMI DI UN AMBIENTALISTA CHE SONO ANCHE I MIEI...

Jonathan Franzen in un lungo articolo su Internazionale del 12 giugno 2015 pone una serie di questioni che mi hanno fatto riflettere soprattutto sull'efficacia che molte nostre posizioni come ambientalisti italiani abbiamo su quello che ci circonda perché sempre più spesso pare di parlare in un deserto (o solo per ascoltarci) e/o di essere sempre e comunque tacciati come “quelli del partito del No”.
La sintesi che mi pare di capire e che vorrei investigare con chi si occupa di questo riguarda alcune domande:
  1. perchè ci sono temi che il nostro cervello non vuole affrontare e se li affronta lo fa solo per un “dovere morale” senza incidere in pratica (la nostra consepevolezza avrà mai la meglio sulla riluttanza delle persone ad abbassare il loro livello di vita?)
  2. come riuscire ad incidere in modo più efficace su situazioni locali per dare un contributo a migliorare la qualità della nostra vita ed insieme dare un po' più di futuro a questo pianeta?
Mi pare che una risposta sia quella di ancorare la nostra azione su progetti locali ben definiti per obbligare anche chi non vuol vedere a “guardare” cosa rischiamo di perdere, oltre ad un comportamento eticamente sostenibile.

Ripartire da piccoli progetti concreti per avvicinarci a quella natura (di cui facciamo parte) e che stiamo facendo sparire, senza capire che con essa spariremo anche noi.
Ripartiamo da questa OSSERVAZIONE rispettosa e da questa semplice riflessione, che ci puo' dare solo sollievo...
Ripartiamo da cercare di riportare i passeri nei nostri cieli.
Come dice Franzen in conclusione della sua analisi:
Solo apprezzare la natura come un insieme di specifici habitat minacciati, e non come una cosa astratta che sta morendo, potrà impedire il completo snaturamento del mondo.”
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Sintesi di un articolo pubblicato sul numero 1106 di INTERNAZIONALE – 12/18 giugno 2015
I dilemmi di un ambientalista” di Jonathan Franzen
The New Yorker, Stati Uniti
ripreso da articolo redazionale del 20 giugno di www.veramente.org

La prima domanda che si pone Franzen è la seguente:
Ha senso investire energie e risorse in progetti a lungo termine per rallentare i cambiamenti climatici oppure dovremmo preoccuparci di preservare subito gli habitat e le specie esistenti?”
A settembre 2014 la National Audubon Society ha pubblicato un comunicato in cui dichiarava che il cambiamento climatico era la più grande minaccia per l’avifauna americana e avvertiva che quasi la metà delle specie di uccelli nordamericani rischiava di perdere il proprio habitat entro il 2080. Nello stesso periodo in California c’erano stati solo 16 giorni di pioggia negli ultimi 254 giorni e le previsioni meteo prevedevano invariabilmente “bel tempo”.

Franzen trova che ci sia una certa affinità spirituale tra l’ambientalismo e il puritanesimo: entrambi sono tormentati dalla sensazione di “essere colpevoli”.
Che la razza umana sia responsabile della distruzione di una grande quantità di specie vegetali ed animali sul pianeta è innegabile. Ora i cambiamenti climatici ci hanno fornito una spiegazione di senso per fare i conti con il nostro senso di colpa: se non ci pentiamo e cambiamo vita presto arriverà il giorno del giudizio e dovremo fare i conti con un una Terra arrabbiata.
Ma lo scrittore americano (appassionato birdwatcher) confessa di aver subìto il richiamo di una varietà compensativa di cristianesimo, che si ispira all’esempio di San Francesco d’Assisi nell’amare ciò che è concreto, vulnerabile e sotto i nostri occhi.

La National Audubon society ha lanciato una grande campagna nazionale proponendo una serie di azioni specifiche finalizzate a proteggere le specie in pericolo: “raccontate le vostre storie, rendete il vostro giardino accogliente per gli uccelli”, ma anche a “sostituite le lampade a incandescenza con altre più efficienti, ecc.”

Spostare tutta l’attenzione sui cambiamenti climatici è molto allettante per le organizzazioni ambientaliste e tutto sommato comporta pochissimi rischi.
Dichiarare che il cambiamento climatico nuoce agli uccelli non scatena nessuna opposizione. Chiedere che vengano messe al bando le munizioni che contengono piombo suscita l’ostilità dei cacciatori e dei costruttori di armi. L’Amministrazione Obama (Fisch and Wildlife Service) ha inserito il Piovanello nella lista delle specie a rischio e ne ha attribuito il declino “al cambiamento climatico”, anziché alla cattura incontrollata del granchio reale, del quale il Piovanello si nutre.

Colpa di tutti, cioè di nessuno.

Franzen va dritto al segno: per impedire future estinzioni non basta ridurre le nostre emissioni di anidride carbonica. Dobbiamo anche tenere in vita una gran quantità di uccelli selvatici ora.


Dobbiamo combattere il rischio di estinzioni nel presente, lavorare per ridurre i pericoli che stanno decimando l’avifauna e investire in progetti di conservazione su larga scala concepiti in maniera intelligente, soprattutto quelli che tengono conto dei cambiamenti climatici.



REASON IN THE DARK TIME, un libro di Dale Jamieson, si presenta con questo sottotitolo: “Perché la lotta contro il cambiamento climatico è fallita e quali saranno le conseguenze per il nostro futuro”.
Jamieson mette in evidenza come dalla Conferenza di Rio del 1992 le emissioni di anidride carbonica non sono diminuite, ma sono notevolmente aumentate.
A Copenaghen nel 2009 Obama ha gettato la spugna e con lui il resto del mondo.
A differenza dei progressisti che vedono una democrazia guastata dagli interessi delle classi agiate,

Jamieson suggerisce che l’inerzia statunitense sul problema dei cambiamenti climatici sia il risultato della democrazia.
Sono proprio i cittadini delle democrazie più inquinanti a beneficiare della benzina a buon mercato e del commercio globale, mentre le conseguenze del nostro inquinamento ricadono soprattutto su chi non può votare: i paesi poveri, le generazioni future e le altre specie.
L’elettorato statunitense è razionalmente egoista.
Secondo un sondaggio citato da Jamieson il 60 % degli americani crede che il cambiamento climatico danneggerà le altre specie e le generazioni future, mentre solo il 32 % pensa che ne sarà danneggiato personalmente.

La tesi di Jamieson è che il cambiamento climatico appartiene ad una categoria diversa da qualunque altro problema mai affrontato perché, innanzitutto, confonde il cervello umano che si è evoluto per concentrarsi sul presente anziché sul futuro remoto, e su variazioni immediatamente percepibili anziché su sviluppi lenti e probabilistici.
La grande speranza dell’Illuminismo – che la razionalità umana ci avrebbe permesso di trascendere i nostri limiti evolutivi – ha subito una batosta da guerre e genocidi ed ora con il problema dei cambiamenti climatici, è tramontata del tutto.

Quindi è innanzitutto importante riconoscere che il surriscaldamento globale è ormai avvenuto.

Anche nei paesi più minacciati da inondazioni o da siccità e in quelli che usano di più le fonti di energia rinnovabili, nessun capo di stato si è mai impegnato a lasciare il carbonio nel sottosuolo.

La terra come oggi la conosciamo somiglia a un malato terminale di cancro, che possiamo curare con un’aggressività deturpante oppure con palliativi e compassione.
Possiamo costruire dighe su ogni fiume e rovinare ogni paesaggio con coltivazioni per biocarburanti, fattorie solari e turbine eoliche, per guadagnare qualche anno di riscaldamento moderato. Oppure possiamo proteggere le zone dove resistono animali e piante selvatiche, anche a costo di accelerare leggermente la catastrofe umana.
Un vantaggio di questo secondo approccio è che, se arrivasse una cura miracolosa, resterebbe ancora qualche ecosistema intatto da salvare.



Il cambiamento climatico ha molte caratteristiche in comune con il sistema economico che lo sta accelerando.
Come il capitalismo, è transnazionale, imprevedibilmente distruttivo, si autoalimenta ed è inesorabile. Non teme la resistenza individuale, crea grandi vincitori e grandi perdenti e tende verso una monocultura globale: l’estinzione della differenza a livello di specie, una monocultura dei programmi a livello istituzionale.
Inoltre è perfettamente compatibile con l’industria tecnologica, perché promuove l’idea che solo la tecnologia tramite l’efficienza di Uber o qualche colpo da maestro della geoingegneria potrà risolvere il problema delle emissioni di gas serra.

Il lavoro di conservazione al contrario è romanzesco. Non esistono due posti uguali e non esistono narrazioni semplici.
Franzen racconta una serie di azioni osservate sulle Ande e in Costa Rica, azioni limitate nello spazio e nel tempo con una forte efficacia complessiva.
In una piccola comunità indigena sugli altipiani ad est di Cuzco, con l’aiuto della Amazon Conservation, la comunità sta riforestando le pendici delle Ande, domando gli incendi e sviluppando il commercio di un legume locale che viene venduto nei mercati della regione, il Tarwi. Un buon progetto di conservazione deve soddisfare nuovi criteri:
  • deve essere un progetto ampio perché la biodiversità non può sopravvivere in un habitat frammentato da piantagioni di palma da olio o da impianti di trivellazione.
  • deve rispettare e accogliere le popolazioni che vivono nella zona.
  • deve essere un progetto capace di resistere al cambiamento climatico.

Lungo i 90 chilometri della strada che scende dagli altipiani si possono vedere quasi 600 specie di uccelli. La strada raggiunge il fondovalle dove un’ ex-hacienda ora ospita un centro educativo, un albergo per eco-turisti e una fattoria sperimentale. L’obiettivo del progetto è creare una cintura protettiva di piccole riserve, comunità autosufficienti e “concessioni” di conservazione su terreni statali. La cosa più straordinaria del lavoro di Amazon Conservation è il basso impatto del suo intervento.
Gli allevamenti ittici su scala ridotta nella regione amazzonica, usano specie native, sono una delle fonti di proteine animali più sostenibili e meno distruttive. Ciò contrasta con l’enormità dei progetti sul cambiamento climatico: le gigantesche turbine eoliche, le fattorie solari a perdita d’occhio, le nubi di particelle riflettente immaginate dai geo-ingegneri.

In Costa Rica, nell’Área de Conservación Guanacaste (Agc) è stato sperimentato un nuovo approccio alla gestione dei parchi, che sono stati affidati a personale che risiede nel territorio del parco e che svolge contemporaneamente attività di conservazione e di ricerca scientifica.
E’ stata addirittura coniata la parola di “paratassonomisti” per indicare il lavoro di ricerca e di catalogazione svolto da personale non professionista. Questa pratica ha sviluppato un forte senso di radicamento nel luogo, i fenomeni di bracconaggio e disboscamento sono quasi scomparsi, i rapporti con le popolazioni indigene sono molto migliorati.

Negli ultimi tempi la tecnologia ha permesso di ricavare l’etanolo dalla cellulosa. Da un punto di vista climatico il miraggio di una efficiente produzione di biocarburante è irresistibile ma in realtà porterà ad un nuovo disastro. Le terre più fertili della Costa Rica sono già state cedute al business delle monocolture.
Finché la necessità di attenuare il cambiamento climatico avrà la meglio su ogni altro problema ambientale, nessun paesaggio del pianeta sarà al sicuro.
Il climatismo, come il globalismo, crea estraneazione.
Oggi gli Americani vivono lontano dal danno ecologico causato dalle loro abitudini di consumo.
Solo apprezzare la natura come un insieme di specifici habitat minacciati, e non come una cosa astratta che sta morendo, potrà impedire il completo snaturamento del mondo.

3 commenti:

  1. L'articolo che citi non mi piace, sembra fatto apposta per non contrastare in alcun modo il modello di sviluppo.
    Se il modello di sviluppo non lo metti in discussione, non ci sono ragioni per fermare il IV Lotto, al più si può privatizzare il Parco del Sile e costruirci delle Ville per le dinastie capitaste che potranno avere la natura fuori dell'uscio di casa.

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  2. Secondo me l'articolo mette in discussione il sistema, ma si pone dei problemi di efficacia per cercare di capire come mai siamo in sette a contrastare certe cose.
    Non si tratta di dire che il CAMBIAMENTO CLIMATICO non sia un problema, ma di vedere se possiamo ancora fare qialcosa di utile per contrastarlo e Jamieson dice che abbiamo già perso.... Non lo so, ma temo abbia ragione...
    Quindi il nostro lavoro deve mirare ad avere un comportamento in grado di cambiare il modello, MA ANCHE (come Veltroni) di spostare consenso su questo cambio di modello..

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  3. Vedere anche http://www.veramente.org/wp/?p=16559

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