La sintesi che mi pare di capire e che vorrei investigare con chi si occupa di questo riguarda alcune domande:
- perchè
ci sono temi che il nostro cervello non vuole affrontare e se li
affronta lo fa solo per un “dovere morale” senza incidere in
pratica (la
nostra consepevolezza avrà mai la meglio sulla riluttanza delle
persone ad abbassare il loro livello di vita?)
- come riuscire ad incidere in modo più efficace su situazioni locali per dare un contributo a migliorare la qualità della nostra vita ed insieme dare un po' più di futuro a questo pianeta?
Ripartire da piccoli progetti concreti per avvicinarci a quella natura (di cui facciamo parte) e che stiamo facendo sparire, senza capire che con essa spariremo anche noi.
Ripartiamo da questa OSSERVAZIONE rispettosa e da questa semplice riflessione, che ci puo' dare solo sollievo...
Ripartiamo da cercare di riportare i passeri nei nostri cieli.
Come dice Franzen in conclusione della sua analisi:
“Solo
apprezzare la natura come un insieme di specifici habitat minacciati,
e non come una cosa astratta che sta morendo, potrà impedire il
completo snaturamento del mondo.”
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Sintesi
di un articolo pubblicato sul numero 1106 di INTERNAZIONALE – 12/18
giugno 2015
“I dilemmi di un ambientalista” di Jonathan Franzen
“I dilemmi di un ambientalista” di Jonathan Franzen
The
New Yorker, Stati Uniti
ripreso
da articolo redazionale del 20 giugno di www.veramente.org
“Ha
senso investire energie e risorse in progetti a lungo termine per
rallentare i cambiamenti climatici oppure dovremmo preoccuparci di
preservare subito gli habitat e le specie esistenti?”
A
settembre 2014 la National Audubon Society ha pubblicato un
comunicato in cui dichiarava che il cambiamento climatico era la più
grande minaccia per l’avifauna americana e avvertiva che quasi la
metà delle specie di uccelli nordamericani rischiava di perdere il
proprio habitat entro il 2080. Nello stesso periodo in California
c’erano stati solo 16 giorni di pioggia negli ultimi 254 giorni e
le previsioni meteo prevedevano invariabilmente “bel tempo”.
Franzen
trova che ci sia una certa affinità spirituale tra l’ambientalismo
e il puritanesimo: entrambi
sono tormentati dalla sensazione di “essere colpevoli”.
Che
la razza umana sia responsabile della distruzione di una grande
quantità di specie vegetali ed animali sul pianeta è innegabile.
Ora i cambiamenti climatici ci hanno fornito una spiegazione di senso
per fare i conti con il nostro senso di colpa: se non ci pentiamo e
cambiamo vita presto arriverà il giorno del giudizio e dovremo fare
i conti con un una Terra arrabbiata.
Ma
lo scrittore americano (appassionato birdwatcher) confessa di aver
subìto il richiamo di una varietà compensativa di cristianesimo,
che si ispira all’esempio di San
Francesco d’Assisi
nell’amare ciò che è concreto, vulnerabile e sotto i nostri
occhi.
La
National Audubon society ha lanciato una grande campagna nazionale
proponendo una serie di azioni specifiche finalizzate a proteggere le
specie in pericolo: “raccontate le vostre storie, rendete il vostro
giardino accogliente per gli uccelli”, ma anche a “sostituite le
lampade a incandescenza con altre più efficienti, ecc.”
Spostare
tutta l’attenzione sui cambiamenti climatici è molto allettante
per le organizzazioni ambientaliste e tutto sommato comporta
pochissimi rischi.
Dichiarare
che il cambiamento climatico nuoce agli uccelli non scatena nessuna
opposizione. Chiedere che vengano messe al bando le munizioni che
contengono piombo suscita l’ostilità dei cacciatori e dei
costruttori di armi. L’Amministrazione Obama (Fisch and Wildlife
Service) ha inserito il Piovanello nella lista delle specie a rischio
e ne ha attribuito il declino “al cambiamento climatico”, anziché
alla cattura incontrollata del granchio reale, del quale il
Piovanello si nutre.
Colpa
di tutti,
cioè di nessuno.
Franzen
va dritto al segno: per impedire future estinzioni non basta ridurre
le nostre emissioni di anidride carbonica. Dobbiamo anche tenere in
vita una gran quantità di uccelli selvatici ora.
Dobbiamo
combattere il rischio di estinzioni nel presente, lavorare per
ridurre i pericoli che stanno decimando l’avifauna e investire in
progetti di conservazione
su larga scala
concepiti in maniera intelligente, soprattutto quelli che tengono
conto dei cambiamenti climatici.
REASON
IN THE DARK TIME,
un libro di Dale Jamieson, si presenta con questo sottotitolo:
“Perché
la
lotta contro il cambiamento climatico è fallita
e quali saranno le conseguenze per il nostro futuro”.
Jamieson
mette in evidenza come dalla Conferenza di Rio del 1992 le emissioni
di anidride carbonica non sono diminuite, ma sono notevolmente
aumentate.
A
Copenaghen nel 2009 Obama ha gettato la spugna e con lui il resto del
mondo.
A
differenza dei progressisti che vedono una democrazia guastata dagli
interessi delle classi agiate,
Jamieson
suggerisce che l’inerzia statunitense sul problema dei cambiamenti
climatici sia il
risultato della
democrazia.
Sono
proprio i cittadini delle democrazie più inquinanti a beneficiare
della benzina a buon mercato e del commercio globale, mentre le
conseguenze del nostro inquinamento ricadono soprattutto su chi non
può votare: i paesi poveri, le generazioni future e le altre specie.
L’elettorato
statunitense è razionalmente egoista.
Secondo
un sondaggio citato da Jamieson il 60 % degli americani crede che il
cambiamento climatico danneggerà le altre specie e le generazioni
future, mentre solo il 32 % pensa che ne sarà danneggiato
personalmente.
La
tesi di Jamieson è che il
cambiamento climatico appartiene ad una categoria diversa da
qualunque altro problema mai affrontato perché, innanzitutto,
confonde il cervello umano che si è evoluto per
concentrarsi sul presente anziché sul futuro remoto, e su variazioni
immediatamente percepibili anziché su sviluppi lenti e
probabilistici.
La
grande speranza dell’Illuminismo – che la razionalità umana ci
avrebbe permesso di trascendere i nostri limiti evolutivi – ha
subito una batosta da guerre e genocidi ed ora con il problema dei
cambiamenti climatici, è tramontata del tutto.
Quindi
è innanzitutto importante riconoscere che il
surriscaldamento globale è ormai avvenuto.
Anche
nei paesi più minacciati da inondazioni o da siccità e in quelli
che usano di più le fonti di energia rinnovabili, nessun capo di
stato si è mai impegnato a lasciare il carbonio nel sottosuolo.
La
terra come oggi la conosciamo somiglia a un malato terminale di
cancro,
che possiamo curare con un’aggressività deturpante oppure con
palliativi e compassione.
Possiamo
costruire dighe su ogni fiume e rovinare ogni paesaggio con
coltivazioni per biocarburanti, fattorie solari e turbine eoliche,
per guadagnare qualche anno di riscaldamento moderato. Oppure
possiamo proteggere le zone dove resistono animali e piante
selvatiche, anche a costo di accelerare leggermente la catastrofe
umana.
Un
vantaggio di questo secondo approccio è che, se arrivasse una cura
miracolosa, resterebbe ancora qualche ecosistema intatto da salvare.
Il
cambiamento climatico ha molte caratteristiche in comune con il
sistema economico che lo sta accelerando.
Come
il capitalismo, è transnazionale, imprevedibilmente distruttivo, si
autoalimenta ed è inesorabile. Non teme la resistenza individuale,
crea grandi vincitori e grandi perdenti e tende verso una monocultura
globale:
l’estinzione della differenza a livello di specie, una monocultura
dei programmi a livello istituzionale.
Inoltre
è perfettamente compatibile con l’industria tecnologica, perché
promuove l’idea che solo la tecnologia tramite l’efficienza di
Uber o qualche colpo da maestro della geoingegneria potrà risolvere
il problema delle emissioni di gas serra.
Il
lavoro di conservazione al contrario è romanzesco.
Non esistono due posti uguali e non esistono narrazioni semplici.
Franzen
racconta una serie di azioni osservate sulle Ande e in Costa Rica,
azioni limitate nello spazio e nel tempo con una forte efficacia
complessiva.
In
una piccola comunità indigena sugli altipiani ad est di Cuzco,
con l’aiuto della Amazon Conservation, la comunità sta
riforestando le pendici delle Ande, domando gli incendi e sviluppando
il commercio di un legume locale che viene venduto nei mercati della
regione, il Tarwi. Un buon progetto di conservazione deve soddisfare
nuovi criteri:
- deve essere un progetto ampio perché la biodiversità non può sopravvivere in un habitat frammentato da piantagioni di palma da olio o da impianti di trivellazione.
- deve rispettare e accogliere le popolazioni che vivono nella zona.
- deve essere un progetto capace di resistere al cambiamento climatico.
Lungo
i 90 chilometri della strada che scende dagli altipiani si possono
vedere quasi 600 specie di uccelli. La strada raggiunge il fondovalle
dove un’ ex-hacienda ora ospita un centro educativo, un albergo per
eco-turisti e una fattoria sperimentale. L’obiettivo del progetto è
creare una cintura protettiva di piccole riserve, comunità
autosufficienti e “concessioni” di conservazione su terreni
statali. La cosa più straordinaria del lavoro di Amazon Conservation
è il basso impatto del suo intervento.
Gli
allevamenti ittici su scala ridotta nella regione amazzonica, usano
specie native, sono una delle fonti di proteine animali più
sostenibili e meno distruttive. Ciò contrasta con l’enormità dei
progetti sul cambiamento climatico: le gigantesche turbine eoliche,
le fattorie solari a perdita d’occhio, le nubi di particelle
riflettente immaginate dai geo-ingegneri.
In
Costa Rica, nell’Área de Conservación Guanacaste (Agc) è
stato sperimentato un nuovo approccio alla gestione dei parchi, che
sono stati affidati a personale che risiede nel territorio del parco
e che svolge contemporaneamente attività di conservazione e di
ricerca scientifica.
E’
stata addirittura coniata la parola di “paratassonomisti”
per indicare il lavoro di ricerca e di catalogazione svolto da
personale non professionista. Questa pratica ha sviluppato un
forte senso di radicamento nel luogo, i fenomeni di bracconaggio e
disboscamento sono quasi scomparsi, i rapporti con le popolazioni
indigene sono molto migliorati.
Negli
ultimi tempi la tecnologia ha permesso di ricavare l’etanolo dalla
cellulosa. Da un punto di vista climatico il miraggio di una
efficiente produzione di biocarburante è irresistibile ma in realtà
porterà ad un nuovo disastro. Le terre più fertili della Costa Rica
sono già state cedute al business delle monocolture.
Finché
la necessità di attenuare il cambiamento climatico avrà la meglio
su ogni altro problema ambientale, nessun paesaggio del pianeta sarà
al sicuro.
Il
climatismo, come il globalismo, crea estraneazione.
Oggi
gli Americani vivono lontano dal danno ecologico causato dalle loro
abitudini di consumo.
Solo
apprezzare la natura come un insieme di specifici habitat minacciati,
e non come una cosa astratta che sta morendo, potrà impedire il
completo snaturamento del mondo.
L'articolo che citi non mi piace, sembra fatto apposta per non contrastare in alcun modo il modello di sviluppo.
RispondiEliminaSe il modello di sviluppo non lo metti in discussione, non ci sono ragioni per fermare il IV Lotto, al più si può privatizzare il Parco del Sile e costruirci delle Ville per le dinastie capitaste che potranno avere la natura fuori dell'uscio di casa.
Secondo me l'articolo mette in discussione il sistema, ma si pone dei problemi di efficacia per cercare di capire come mai siamo in sette a contrastare certe cose.
RispondiEliminaNon si tratta di dire che il CAMBIAMENTO CLIMATICO non sia un problema, ma di vedere se possiamo ancora fare qialcosa di utile per contrastarlo e Jamieson dice che abbiamo già perso.... Non lo so, ma temo abbia ragione...
Quindi il nostro lavoro deve mirare ad avere un comportamento in grado di cambiare il modello, MA ANCHE (come Veltroni) di spostare consenso su questo cambio di modello..
Vedere anche http://www.veramente.org/wp/?p=16559
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